In San Giuseppe. Accogliere, custodire e nutrire, San Paolo, 2021, Fabio Rosini effettua un’efficace e luminosa disamina sulla figura di San Giuseppe, che è anche occasione per estendere il proprio ragionamento e le proprie proposte ad ampie categorie della razionalità, della logica e dell’etica civile (qui intesa come privata, familiare e sociale). Ciò è quantomai opportuno, perché in realtà lo studio biografico è sempre degno e sufficiente, ma senz’altro un approccio onnicomprensivo arricchisce il dibattito pubblico; stimola l’attenzione dei lettori e, perché no, anche degli studiosi.
Per inciso, lo scrittore è appunto il noto Don Fabio Rosini; egli è studioso, biblista, autore di numerose e dotte trattazioni, le quali tuttavia si caratterizzano per il loro afflato generoso e ampio, nel senso divulgativo del termine. Se in passato l’Autore si è occupato in maniera scientifica dei veri, grandi temi della Vita (misericordia spirituale, discernimento, guarigione, amore), ora il suo occhio si sposta nuovamente verso tematiche storiche.
Il genere biografico, come noto, è particolarmente nobile, perché permette allo speculatore di non esaurire tutte le proprie risorse e le proprie energie (o quantomeno consente di rinviare il momento del grande sforzo cognitivo!); anzitutto, chi si occupa del dato, dell’informazione certa, ha la possibilità appunto di muovere da condizioni di certezza informativa. Secondo un’illustre scuola di pensiero, infatti, che del resto è presente e manifesta in ogni forma di istruzione (scolastica, universitaria, lavorativa), esiste una somma divisione tra un dato informale, speculativo, in negativo potremmo dire “incerto”, e un dato invece storico, certo, enciclopedico. Il gioco di rimando, il brillante rimbalzo tra il dato informale e quello enciclopedico, costituisce in realtà un’ottima fucina di conoscenze e proposte. Se i primi lavori di Rosini si caratterizzano per un approccio speculativo, quantomeno nelle premesse e nella loro cornice sostanziale, in quest’ultimo volume il lettore può apprezzare un’interessante commistione tra le due tipologie di dato, sopra menzionate.
Non a caso, il titolo del primo capitolo da questo punto di vista è molto efficace: “Geo-localizzazione” (p. 13): “(…) Giuseppe di Betlemme, figlio di Giacobbe e remoto discendente del Re Davide lo troviamo soprattutto nei racconti della prima infanzia di Gesù dell’evangelista Matteo (…)”.
Poco dopo compaiono considerazioni di assoluto valore, ad esempio sul ruolo dell’immaginazione e del sogno.
Si legge a p. 29: “(…) l’Angelo gli appare in sogno. Che vuol dire? Niente di freudiano! Il sogno è una categoria biblica (…).
Una prima premessa è brillante: Rosini afferma che San Giuseppe è una figura innestata nel nostro animo, ossia nell’intimità di tutti. L’Autore intende qualificarci sì come figli, ma al contempo afferma che siamo i padri (o le madri) di qualcuno o qualcosa. Prima di tutto, noi abbiamo messo al mondo il nostro Tempo, inteso qui come spirito del tempo; neanche a dirlo, si ipotizza una responsabilità genitoriale nei confronti dei nostri frutti, della nostra creatura sociale. Si parla di Tempo e di generazioni, dotati entrambi di bellezza, doti, virtù; più noi assecondiamo tali virtù – e ovviamente provvediamo ad accrescerle – più potremo essere fieri (e soddisfatti, felici) di quanto messo in atto. Ciascuno è dunque custode, o padre (è Giuseppe): questo sinallagma richiama la classica e sempre valida teoria del rapporto tra libertà e responsabilità. La gioia di sentirsi figli è data dalla protezione, ma vi è anche un attivismo vitale dato dalla custodia, dal lavoro e dall’azione, nel senso nobile del termine. L’azione nobilita la vita, anche solo in punto di considerazioni psicologiche ed etiche. Ciascuno, nella propria vita, ha la possibilità di vivere (quasi teatralmente) entrambi i ruoli: essere protetto o proteggere qualcun altro (la persona amata, i figli, i familiari) o qualcos’altro (l’educazione, la cultura, ecc.). Don Fabio conclude qualificando Giuseppe come servo, padre, sposo, combattente, uomo.
Sa discernere, disimpara – a p. 158: “(…) sa dare il giusto nome al bene e conosce da dove venga il male (…)”, di nuovo un tema caro all’Autore – conosce la fiducia e il giusto scetticismo, conosce l’arte della misura, che è sempre manifestazione di un carattere dignitoso.
Adesso una nota personale e più leggera; l’Autore è assai ironico, tratto che ho particolarmente apprezzato, dal momento che, almeno quando narro (quindi non nelle trattazioni), confesso di essere particolarmente legato agli stilemi della commedia, della satira e dello scherzo. Si illustreranno i motivi a breve.
Si legge in Premessa, p. 8: “(…) Qualche anno fa c’era una pubblicità terribile in cui il padre non capiva niente, mentre i figli e la madre comprendevano tutto. Lui non risolveva i problemi, li complicava, credendo invece di risolversi; a un dato momento diceva: “Cosa fareste senza di me?”; e la madre rivolta verso lo spettatore ribatteva: “Ne prenderemmo un altro”; la gente rideva… ma di cosa? Era l’immagine del padre di questa epoca (…)”.
Ancora, a p. 27: “(…) a Nàzaret non c’erano più di un centinaio di famiglie – l’hai potuta incontrare solo in presenza di altri ed eri un ragazzo mentre lei era appena adolescente, e l’hai corteggiata, in qualche modo complicato e rituale, secondo gli usi del tempo (…). Avete pianificato le cose, avete riso insieme, avete pregato insieme – la scena non si svolge di questi tempi a Milano Marittima fra due ragazzi tatuati, ma nell’Israele del primo secolo, fra due giovani pii (…)”.
E molti altri passaggi ancora. Non voglio anticipare troppo, ma senz’altro molte pagine faranno la gioia del lettore attento, divertito, curioso: Don Fabio ha occasione di pronunciarsi, proprio tramite l’ironia, su alcune recenti ed errate tendenze circa la sub-cultura della Colpa, la vittoria dell’apparire sull’essere in ambito artistico-musicale, filmico e televisivo (più che opportuno il riferimento critico a Netflix) e sentimentale (tendenza che Rosini colloca negli anni Dieci e Venti di questo secolo). In fondo, la transizione che si sta verificando passa anche per la grave crisi che ha colpito le manifestazioni artistiche del pensiero umano, che in un contesto potenzialmente sano sarebbero adeguate al facitore di cultura: si tratterebbe di opere quanto più assimilabili a colui o a colei le ha prodotte. I criteri giusti sono i soliti, ovverosia intrattenimento, entusiasmo, trame, personaggi e musica, ma anche (molte) regole, etica, consapevolezza del messaggio. Altrimenti, il degrado umano e artistico è sempre dietro l’angolo, all’insegna di egocentrismo e cultura puerile, che nulla hanno a che spartire con l’animo fanciullesco.
Quello in commento è dunque un testo di crescita spirituale, ma è anche – come si avrà avuto modo di intuire – un ragionamento moderno, pieno di spunti di riflessione.
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