Morgana aveva incontrato Baldwin in un momento d’incoerenza e mentre cercava d’individuare il proprio valore dentro il mondo. Un atteggiamento, il suo, confuso per attitudine all’instabilità da chi invece era sicuro di averlo già trovato, un senso. Lei si distraeva tra le differenti occasioni che la vita propone, come se un alito caldo e persuasivo soffiasse sulla sua schiena, sospingendola, e nulla poteva la sua volontà che forse, anzi di certo, per il momento era debole e da lei stessa ignorata. Risentiva anche di una curiosità prolungata di molto oltre il limite ammesso dall’età, essendo ormai lontana da quel periodo della vita in cui le mani stropicciano legittimamente qualsiasi cosa, quando ogni evento, od oggetto, è tanto più prezioso quanto più ci si deve arrampicare per arrivarci. Trascorreva parecchio del suo tempo a rivisitare ricordi infantili, le tornavano felicemente alla memoria dei particolari, come il colore dei minuscoli ricami sui guanti di sua madre, o le righe spiegazzate sulla cravatta di suo padre, oppure il disegno sulla tazza del caffelatte, un piccolo elefante azzurrino con le orecchie rotonde e la proboscide corta. Per un bambino è più facile osservare e tutto ha un’importanza assoluta, lo spirito che guarda non è infettato da alcun tipo di freno. Ricordava così bene l’elefante sulla tazza perché gli aveva costruito un gioco attorno, una giungla, un cielo rosso e mille altri animali. Con gli occhi di adesso non arrivava a tanto, manco a provarci, quello che era era, una tazza poteva piacerle più di un’altra, ma finiva lì. Allora, se la sua capacità d’infilare il naso nell’immaginario si era inaridita, voleva dire che il fascino di moltissime cose era perduto per sempre.E mentre continuava a gingillarsi con la vita e con quella curiosità acerba, ma che applicata al suo mondo adulto era impropria, se non ormai ridicola, pensava che il suo poteva anche essere un atteggiamento infecondo ai fini dell’anima. “Perché io ce l’ho, l’anima…” pensava “e non è di certo come quella di mio padre, che si compatisce da sé, tanto è striminzita e paralizzata. La mia dev’essere più carina senz’altro, e non la posso sciupare riempiendola di roba schifosa, come i panini di Rita, giù al bar.” Questo pensiero non le balenava tanto spesso, ma quando accadeva era di seguito all’angoscia, che arrivava come presagio di una colossale perdita di tempo. Passeggiava, fuggiva, si chiudeva nella sua stanza, ma sempre in compagnia dell’illusorio impegno di capirsi, d’impararsi, per accorgersi che, infine, batteva dei colpi a vuoto. Ma poi, che aspetto aveva il suo “sé”? E soprattutto, dov’era? In senso generale, non provava amore e nemmeno rabbia, il paese era conosciuto e fin troppo esplorato, la gente era sempre la stessa e lei si annoiava lì come altrove; spesso, in vita sua aveva anche esagerato, infilandosi in situazioni fantasmagoriche e oltre i confini della decenza. Non riusciva a superare un ostacolo, lo immaginava come uno scalino abbastanza alto ma di sicuro abbordabile; solo che non sapeva dove fosse, il favoloso scalino, e neppure dove le sarebbe piaciuto trovarlo. Forse, quel malessere nasceva dalla famosa fatalità del crescere di cui suo padre parlava tanto volentieri, riempiendo di definizioni la bocca fina e sdegnata. Lui la puntava senza pietà, sei una bolla d’aria, tra un po’ sarai vecchia e non sarai mai cresciuta, diceva, senza una punta di amorevole dispiacere. Ma lei era convinta che crescere venisse da sé, quindi il suo disagio doveva nascondere qualcos’altro. Infiocchettava gli amori, le fughe e i rientri, come da piccola faceva con l’elefante sulla tazza, ma l’effetto non era lo stesso. Provava estraneità nei confronti della propria vita, non riusciva a credere in alcun progetto e non trovava l’impeto giusto per proseguire; era come se la vera Morgana fosse annidata nell’attesa che qualcosa le fornisse lo stimolo per nascere, piuttosto che per crescere…
Morgan, una fata nel fango – Alessandra Paola Rocchi
Editore: Arduino Sacco