Da piccole cose possono nascere grandi eventi.
Se dovessi scegliere una frase riassuntiva de L’istituto di Stephen King, per quanto mi riguarda sarebbe senz’altro questa, posta alla fine di un capitolo delle primissime pagine. Un concetto telegrafico, forse un po’ scontato, ma dal significato alquanto profetico. Lo considero alla stregua di un varco in procinto di aprirsi su un mondo così sconvolgente da lasciare a bocca aperta.
Tim Jamieson è un uomo sul punto di cambiar vita che sta per trasferirsi a New York, ma a causa di un bizzarro scherzo del destino si ritroverà in un paesino sperduto della Carolina del Sud.
Luke Ellis è un bambino prodigio, dotato di un’intelligenza fuori dal comune, che viene rapito in maniera brutale. Insieme ad altri coetanei, giunti con le medesime violente modalità, sarà costretto con la forza a vivere all’interno di un edificio che ha tutta l’aria di un istituto, un sorta di collegio dalle regole tanto ferree quanto sospette, in balia di misteriosi e inquietanti guardiani dagli scopi del tutto ignoti.
Questi sono i due filoni narrativi che ci presenta lo scrittore del Maine, due percorsi geograficamente e materialmente distanti tra loro. Ma è solo l’inizio.
L’istituto, tradotto da Luca Briasco, è uno stupendo romanzo corale, genere in cui Stephen King, in maniera impareggiabile, si trova completamente a suo agio come dimostrato in altri capolavori quali IT, L’ombra dello scorpione, Cose prezione e The dome solo per citarne alcuni, dove tutto, dal singolo evento al singolo personaggio, fa parte di un meccanismo a orologeria praticamente perfetto. È soprattutto una storia sull’amicizia, su quel legame irripetibile che solo da ragazzini risulta più autentico, quando l’animo è scevro da quelle infiltrazioni tossiche tipiche degli adulti come i secondi fini, le faziosità e gli egoismi che immancabilmente si insinuano nel corso della vita e la rendono impura. In giovane età le amicizie sono vere e proprie connessioni mentali, e i bambini protagonisti di questo romanzo ce ne daranno dimostrazione in un finale sbalorditivo.
Paradossalmente, almeno per chi, come me, legge (e rilegge) Stephen King da una vita, e di conseguenza si sente kinghiano fin nel midollo, non risulta per niente facile recensire un suo romanzo. È come chiedere a un appassionato di calcio cosa pensa di Maradona o Pelé, giocatori unici e irripetibili che hanno fatto, e fanno tutt’ora, sognare generazioni intere. Da dove comincio? Di cosa posso parlare per non cadere nel banale e nel già sentito?
So perfettamente che Stephen King ha sì tantissimi ammiratori in tutto il mondo ma anche un notevole numero di denigratori. Lungi da me far cambiare opinione. Chi ha esplorato l’universo kinghiano, però, e vi si è addentrato quel tanto che basta, sa quanto esso sia costellato di pianeti, e come ognuno di essi sia una storia incredibile dove lui è in grado di maneggiarne magistralmente i fili della trama e della suspense, seminando qua e là frasi e indizi premonitori come tessere di un puzzle che fanno intravedere, immaginare e pregustare qualcosa di sorprendente. Attraverso la paura, il sentimento che assieme all’amore muove il mondo nel bene e nel male, King ci parla di noi stessi e delle nostre interazioni quotidiane; ci racconta le nostre esistenze abitudinarie, apparentemente prive di senso e troppo spesso insoddisfacenti ma, se solo ci impegnassimo a vedere al di là del proprio orticello, marcate da una profonda esclusività. Ci svela gli abissi che le nostre debolezze possono farci toccare e le vette che la nostra forza di volontà, con perseveranza e senza mollare un centimetro, può farci raggiungere.
Perché da piccole cose, un po’ alla volta, possono nascere davvero grandi eventi.
Recensione di Damiano Del Dotto.
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