‘Lady Sings The Blues’, titolo italiano ‘La signora canta il blues’ è l’autobiografia di Billie Holiday, scritta dall’artista nel 1956, appena tre anni prima della sua prematura morte ,con il contributo dello scrittore e giornalista William Dufty; in Italia apparve nel 1959 per Longanesi e successivamente più volte per Feltrinelli.
La critica jazz ha sempre imputato a Dufty di non essere né uno storico né un musicologo, bensì un semplice giornalista da tabloid. In realtà il lavoro di Dufty fu più che buono, anche per la sua capacità di rendere la parlata popolaresca di Lady Day. Il giornalista si documentò bene per quanto gli fu possibile, avvalendosi di una folta rassegna di articoli ed interviste e naturalmente di molte e approfondite conversazioni con la Signora. Nonostante alcune imprecisioni, come quella sul luogo di nascita di Billie Holiday, Philadelphia e non Baltimora, per approcciarsi alla Holiday la sua cosiddetta autobiografia resta comunque uno strumento fondamentale, una testimonianza preziosa per chi vuole conoscere la sua vicenda artistica ed umana, ma anche per chi vuole sapere qualcosa in più sulla storia della musica jazz, la segregazione razziale, gli anni della Grande Depressione.
Questo libro infatti, prima di essere l’autobiografia di una cantante è uno spaccato di vita di una ragazza nera nella prima metà del ‘900. Lady Day parla di sé con franchezza, senza romanzare, senza nascondere niente dietro il velo mendace della narrazione; la scrittura risulta aspra e ruvida e non priva di errori grammaticali; non segue fedelmente il corso del tempo ma i vari capitoli ripercorrono serie di momenti della sua vita che nell’insieme danno una chiara immagine della cantante e di tutto il mondo nella quale era immersa.
Quella di Lady Day è stata di sicuro una delle parabole più tragiche della storia della musica. Dietro i suoi successi c’è una storia personale dolorosa e sofferta, che ha affrontato a testa alta, con quella dignità che l’ha sempre contraddistinta, sin dai i tempi in cui puliva gli scalini dei ‘bianchi’ ricchi per racimolare qualche soldo per aiutare sua madre. La storia di Lady Day inizia nel 1915 e si conclude nel 1959: dagli slum di Baltimora al Café Society di New York, passando attraverso vicende di violenza, sfruttamento, prostituzione, droga e discriminazione razziale, fino al riconoscimento del pubblico di tutto il mondo che porta alla nascita della leggenda. È la storia di una donna fragile che proprio dalle sue fragilità trae la sua forza più grande, un forza graffiante, violenta e passionale che le permette di farsi strada nel “men’s world”, nel “mondo fatto per gli uomini”, facendone il suo campo di battaglia, la sua croce di talento e amore.
Billie Holiday con la bianca gardenia tra i capelli, la bocca sensuale, lo sguardo malinconico e sornione, spesso troppo stanca, altre volte troppo vissuta, spesso completamente persa nei deserti del suo cuore. Ma mai nel canto, mai troppo. “…Un angelo con le ali di marmo e raso…” come la definisce Stefano Benni nel graffiante ritratto dedicato all’artista; uno strano frutto Lady Day, come recita il titolo di uno dei pezzi di maggiore successo da lei interpretato, e che la rese capace non solo di sedurre e commuovere il suo pubblico,ma anche di scuoterlo, dato il contenuto del brano. La Signora canta il blues, e lo fa con la voce che graffia le pareti del cuore, voce che culla se deve cullare, che morde se deve mordere, che sanguina e fa sanguinare. Quella voce, quel suo modo di cantare “…lento, pigro, strascicato…”, sofferto e pieno di pause, sprigiona il blues, il verso blues, tuttora magico, intatto e ulcerato. Nessuno come lei è stato capace di cantare le parole fame e amore, “..forse perché- come si legge nell’autobiografia- so cosa han voluto dire queste parole per me, e quanto mi sono costate. Forse è perché sono così orgogliosa da voler per forza ricordare Baltimora e Welfare Island, l’istituto cattolico e il tribunale di Jefferson Market, lo sceriffo davanti al ritrovo nostro di Harlem, e le città sulla costa da un oceano all’altro dove ho preso le mie batoste e le mie fregature, Filadelfia e Alderson, San Francisco e Hollywood; ricordare metro per metro ogni dannato pezzo di tutto questo. Tutte le Cadillac e i visoni di questo mondo, e io ne ho avuti un bel po’, non possono ripagarmi e nemmeno farmi dimenticare. Tutto quel che ho imparato in tutti questi posti da tutta questa gente si può riassumere in queste due parole. Nella vita, per prima cosa devi avere da mangiare e un po’ d’amore..”. E in questo c’è forse tutta l’essenza di questa piccola grande donna, di quest’artista unica e ineguagliabile, della sua anima, della sua sofferenza, della sua musica che risuona anche attraverso le pagine di questo libro; libro che non solo gli appassionati di musica e del genere dovrebbero leggere, ma anche tutti coloro i quali sono inclini a lasciarsi sedurre da personalità così viscerali, delicate e ruvide al tempo stesso come quella di Billie Holiday. Da questa autobiografia è stato tratto il film “La signora del blues” interpretato da Diana Ross nei panni della Holiday, ruolo che le valse il Golden Globe come migliore attrice debuttante.
Silvia Mangieri
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