La piazza del Diamante (titolo originale La plaça del Diamant) è un romanzo della scrittrice catalana Mercè Rodoreda. Il romanzo,considerato una delle opere principali mai scritte in lingua catalana, fu pubblicato nel 1962,ed è stato tradotto in più di venti lingue. Addirittura oggi esiste anche una traduzione in sardo.
Grabriel Gracia Marquez lo ha definito “il romanzo più bello che sia mai stato pubblicato in Spagna dopo la guerra civile”. Nonostante questo, nonostante il profondo spessore della Rodoreda,figura di primo piano della letteratura catalana del XX secolo, attivamente impegnata contro il franchismo e per l’indipendenza della Catalogna,la scrittrice e la sua opera non sono state giustamente considerate e apprezzate in Italia per lungo tempo. Come afferma Antonio Tabucchi: “Mercè Rodoreda continua ad essere una scrittrice per un cenacolo ristretto di ammiratori, una sorta di clan “carbonaro” esistente in diversi paesi…”.
La Rodoreda completò il romanzo insieme ad altri lavori, a Ginevra dove era giunta dopo essere stata a Parigi in fuga dalla Spagna caduta sotto la dittatura di Franco seguita alla vittoria dei nazionalisti durante la guerra civile. Anche questo romanzo segue lo schema della maggior parte dei romanzi della scrittrice catalana: quasi sempre la protagonista è un personaggio femminile, donne fragili ma al contempo capaci di dimostrare una grande forza interiore; essi, inoltre, sono spesso ambientati nei luoghi dove la scrittrice aveva trascorso la sua infanzia, principalmente nel particolare quartiere barcellonese di Gràcia, posto di grandissimo fascino, un tempo un paese staccato dal resto di Barcellona. Lo stile narrativo è diretto, agile, ricco di realismo e simbolismo.
La vicenda della protagonista di questo romanzo, Natalia, si apre e si chiude proprio nella piazza del Diamante. Natalia è una ragazza molto semplice, ingenua, non abituata ad esprimere le proprie emozioni, che si ritrova a vivere nella Barcellona degli anni trenta, prima, durante e dopo i duri tempi della guerra civile, anche se la guerra non viene presentata dalla scrittrice con evidenza, ma rimane in sottofondo, quasi nell’ombra. Sempre Tabucchi afferma che La piazza del Diamante è “..il romanzo più struggente sulle atrocità della guerra civile spagnola, proprio perché la guerra civile c’è ma non se ne parla mai. Mercè Rodoreda è riuscita a mostrare le mostruosità della guerra senza parlarne direttamente, ma raccontandone gli effetti collaterali sulla povera vita di Colombetta..”. Il romanzo è narrato in prima persona dalla stessa Natalia, in un flusso di coscienza catalano che ricorda molto lo stream of consciousness di Virginia Woolf, scrittrice molto amata dalla Rodoreda, e che ci trascina lentamente, avviluppandoci nella storia tenera, dolce e al contempo drammatica di una donna e di un paese.
Tutto inizia con un accordo di festa in musica sulla piazza del Diamante, nel bairro popolare di Gràcia. La giovane Natalia lavora in una pasticceria. La sua amica Julieta la invita ad andare ad una festa da ballo. Natalia sebbene controvoglia, si lascia convincere dall’amica, per la sua incapacità innata di dire di no a chiunque le chieda qualcosa. Vestita di bianco da capo a piedi, come un sorso di latte, Natalia arriva in piazza del Diamante ed è lì che conosce Quimet, “..un giovane con occhi da scimmietta brillanti..” che la invita a ballare e decide che “..in capo ad un anno sarebbe diventata la sua signora e la sua regina..”. Già dalle prime battute Quimet si rivela un giovane egoista, energico, sostanzialmente indifferente agli altri. Lui la chiama Colombetta, e proprio come una colomba mansueta e timida, Natalia si lascia trascinare in quel paso doble, ormai sedotta da quel giovane sfrontato. Cominciano a frequentarsi. Natalia,ormai ribattezzata Colombetta, lascia il suo vecchio fidanzato, Pere. Quimet, insiste perché Colombetta lasci il lavoro, perché trovino un appartamento e lo rimettano a posto, salvo poi sparire durante i lavori, perché si sposino. Colombetta tenta alcune ribellioni, ma alla fine segue questo ragazzo, lo sposa e lo asseconda, gli amici di lui diventano i suoi. Cominciano una vita insieme. Colombetta deve occuparsi della casa, compiacere la madre di lui durante le visite, nonostante lui stesso non abbia un buon rapporto con lei, occuparsi di Quimet che si rivela sempre più egoista e lunatico. Quando Quimet lo decide, concepiscono il loro primo figlio seguito poi da una bambina. L’unica amicizia, di Colombetta, è la signora Enriqueta,che vive “..vendendo d’inverno castagne e patate americane.. e d’estate noccioline e giuggiole per le feste rionali..” e che le dà sempre buoni consigli. La vita di Colombetta è una vita di accettazione, rinunce, di un amore e di una paziente acquiescenza verso un marito prepotente, egoista, dispotico, incostante, facile prenda di bizzarrie e strambi progetti di vita. Ecco perché quando Quimet porta a casa un colombo ferito per curarlo e da lì comincerà a riempire la casa di colombi, trasformando il soffitto in una colombaia,Natalia non dice nulla e si rassegna ad accettare. Il lavoro di Quimet,falegname ebanista, che sino ad allora era andato bene, incomincia però a scarseggiare. Il suo carattere si inasprisce e la mansueta Natàlia per quadrare il bilancio domestico, due figli, quaranta coppie di colombi e quel marito grossolano e dispotico, si trova un lavoro come domestica. “Tutto andava avanti così con piccoli grattacapi, finchè venne la repubblica e Quimet si esaltò e andava per le strade gridando e facendo sventolare una bandiera che non sono mai riuscita a sapere dove l’aveva presa…”. Quimet alla fine parte con le milizie per il fronte d’Aragona. Intanto Colombetta continua a lavorare. Ma la militanza del marito non è vista di buon occhio dai ricchi signori presso i quali fa le pulizie, che la licenziano. Con l’aiuto della signora Enriqueta, Colombetta trova lavoro come donna delle pulizie in un altro luogo, mentre piano piano decide di sbarazzarsi dei colombi. Poco dopo Quimet muore e intanto la guerra si intensifica. La situazione diventa sempre più dura per la libertà della Spagna e per la dolce Colombetta. I viveri e le risorse scarseggiano. Natalia si sente venir meno mentre i suoi figli diventano sempre più deboli e affamati. Per qualche tempo riesce a lasciare il bambino in una colonia. Ma il peso della sofferenza e della fatica aumenta e Colombetta, disperata Medea, decide di uccidere i suoi figli e se stessa con l’acido muriatico. Il giorno in cui decide di mettere in pratica il suo piano, qualcuno di inaspettato riesce però a persuaderla, e da lì la sua vita prenderà un nuovo corso. Il droghiere del quartiere, il signor Antoni, da cui Colombetta si reca per comprare l’acido, riesce a leggere la disperazione profonda nei suoi occhi. Uomo solo, buono e giusto, le propone di andare a vivere con lui portando i bambini. Natàlia accetta: si compone una quieta famiglia. Dopo tanto tempo, mentre la vita di Colombetta cambia e lei può finalmente riposarsi, alla depressione, alla stanchezza, al vuoto subentra una nuova consapevolezza, la consapevolezza che qualcosa è cambiato e lei può essere finalmente se stessa, ed essere amata per quello che è. Finalmente la sua vecchia vita è morta. Colombetta va’ dove dove tutto è cominciato e urla. È urlo “munchiano”, disumano, graffiante ma liberatorio. Finalmente si è liberata del suo passato, ha smesso di aspettare Quimet, si lascia alle spalle la vecchia vita e urla tutto il dolore delle rinunce e delle sofferenze patite. Quell’urlo è l’urlo della nascita,è l’atto risolutivo con cui la protagonista uccide un passato morbosamente oppressivo e se ne affranca per sempre. Dove muore Colombetta, dalle sue ceneri nasce la nuova Natalia, che può aprirsi a nuove cose, dire grazie a chi l’ha accolta, e tornare finalmente a casa, dove qualcuno la aspetta, in un letto “…caldo come la pancia di un canarino…” L’ultima parola del romanzo è “Felici”.
Mercè Rodoreda amava definire La piazza del Diamante un romanzo d’amore perché racchiude in sé la vera tenerezza e durezza dell’amore. Di particolare efficacia è la tecnica espressiva della Rodoreda. Scrittrice raffinata, Mercè Rodoreda riesce con grande competenza a ricreare il quasi parlato di una donna poco istruita che nel suo racconto si affida alla paratassi e alla ripetizione, ignorando completamente le strutture sintattiche complesse. I periodi brevi, anche brevissimi, di un solo rigo, hanno però un loro ritmo e una loro musicalità; e le parole,sebbene prese dal quotidiano, ripetute senza l’utilizzo di sinonimi,risultano leggere e tuttavia pregnanti; così come le tante similitudini che suonano tenere e coinvolgenti: “ero come una casa quando vengono gli uomini del trasloco e mettono tutto sottosopra. Così ero io dentro:con gli armadi in anticamera e le sedie gambe all’aria e tazze per terra da avvolgere con la carta e metterle in una cassa con la paglia, e il divano e il letto disfatti e in piedi contro la parete e ogni cosa in disordine..” .È come se l’apparente mancanza di filtri tra i suoi sentimenti e la descrizione che ne fa, rendesse questi sentimenti ancora più chiari e forti. Lo stile della Rodoreda riesce a rendere bene i sentimenti e le emozioni, a coinvolgere nel suggerire le atmosfere dei tempi e dei luoghi in cui la storia si colloca.
Nel 1984 lo scultore catalano Medina-Campney nella Piazza del Diamante ha ritratto Colombetta proprio nel momento in cui lancia il suo profondissimo urlo d’inferno. Un corpo di donna nudo attraversa una parete, un triangolo di metallo e filo spinato, e se ne distacca con le braccia e le gambe protese in avanti.
Silvia Mangieri
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