Una serie di omicidi sconvolge l’afosa estate di Milano. Su ogni cadavere, un indizio: la stampa di una posizione di una partita a scacchi. Chi è il misterioso assassino e cosa vuole comunicare con quelle immagini? Elio Fossati, ex-giocatore professionista e investigatore privato, viene incaricato, suo malgrado, di scoprirlo. “Il primo cassetto in basso” è un giallo appassionante scritto da Paolo Delmastro che abbiamo incontrato per rivolgergli alcune domande.
D: “Il primo cassetto in basso” inizia con la premeditazione di un assassinio: quindi un lettore sa subito di cosa parla il tuo romanzo?
R: Sì e no, il primo capitolo è una cronaca minuziosa di un assassinio, narrata in prima persona da colui che lo compie. Quindi il lettore entra subito nel contesto, ma non per questo gli si svela il mistero centrale del romanzo, anzi, in quel capitolo il protagonista parla dell’indizio che viene lasciato sul cadavere come una semplice “busta impermeabile”, ma il lettore non sa ancora cosa c’è dentro e non ha modo di inquadrare perfettamente la situazione. Capisce che c’è un indizio lasciato di proposito, ma non può sapere di cosa si tratta. Lo si scoprirà più avanti…
D: Com’è nata l’idea di questo libro?
R: L’embrione dell’idea era molto banale inizialmente. Si trattava di una guerra fra gang, una delle quali composta da persone di colore, da cui la semplice analogia con i colori dei pezzi degli scacchi. Ma non mi piaceva per niente, troppo retorica e superficiale, mentre invece l’dea di nascondere un indizio in una rappresentazione di una partita a scacchi mi sembrava molto promettente. Inoltre, volevo anche andare oltre la semplice trama investigativa, introducendo tematiche più profonde, più introspezione, più conflitti di coscienza in entrambi i personaggi principali. Così è nato prima un racconto di una ventina di pagine, che a distanza di tempo ho ripreso in mano e ho sviluppato. Insomma, è stata una costruzione lenta, in cui le idee di base si sono ampliate nel tempo fino a raggiungere la forma che si trova oggi nel testo finale, non senza svariate rilavorazioni.
D: Chi è Elio Fossati? Come hai costruito il suo personaggio?
Qui c’è un aneddoto che ha dell’incredibile. Quelli che nel testo finale si chiamano Fossati e Mancuso, in origine avevano due cognomi diversi, scelti in modo non casuale (volevo connotare la provenienza geografica dei personaggi) ma assolutamente privi di riferimenti a personaggi reali. Un giorno, era un periodo in cui stavo tornando a frequentare il mondo degli scacchi dopo anni di assenza, mi imbattei in un articolo di una rivista che parlava di campionati europei e dei risultati di due dei nostri giocatori di punta Basso e Valsecchi, che io non conoscevo. Beh, rimasi a bocca aperta leggendo che questi due giocatori avevano esattamente i cognomi dei miei personaggi!! Pensai che fosse un segno del destino e mantenni i cognomi fino alla fine, ma durante le presentazioni della campagna di crowdfunding molto spesso mi veniva posta la stessa domanda: “Ma Valsecchi è QUEL Valsecchi?”. Alla fine, insieme all’editor abbiamo deciso di cambiare il cognome, ed è diventato Fossati. A parte il nome, la costruzione del personaggio è stata complicata. Volevo una personalità difficile, non volevo scadere nel solito archetipo del “mago” riservato spesso a chi investiga nelle trame gialle/thriller. Doveva soprattutto seguire un arco di trasformazione, un’evoluzione, doveva uscire dall’ultima pagina diverso da come era apparso nella prima, e soprattutto doveva servirmi per affrontare il tema della dipendenza che volevo assolutamente inserire. Infine, mi serviva anche per un tributo a quello che ritengo il più grande giocatore della storia: Garry Kasparov. La narrazione in prima persona rende più difficile dilungarsi nelle descrizioni fisiche, ma mi sono inventato un passaggio in cui l’antagonista descrive il protagonista, e la descrizione l’ho scritta riferendomi a Kasparov sia nella versione attuale che in quella giovanile dei suoi primi successi. Quindi, dettaglio difficile da cogliere, Fossati ha il volto di Kasparov!
D: Il tuo giallo è ambientato a Milano: oltre a essere la tua città, c’è un motivo particolare per cui l’hai scelta?
R: Certamente sì, c’è un motivo. Anzitutto volevo una grande città, mi sembrava il contesto adatto per il tipo di trama. La letteratura è piena di esempi di romanzi in cui i luoghi reali hanno nomi di fantasia, vedi Pirandello. O di romanzi in cui i luoghi sono puramente inventati e sono solo verosimili. Ma io ho un debole per due autori spagnoli M. V. Montalban e C. R. Zafon, che hanno ambientato la maggior parte delle loro opere a Barcellona. Ebbene: quei due sono in grado di farti innamorare della loro città. Leggi i loro romanzi e vuoi andare a visitare Barcellona, capire meglio la storia urbanistica della città pre- e post-olimpiadi, vuoi vedere fino all’ultimo vicolo buio, all’ultimo locale in cui puoi assaggiare le tapas descritte da Pepe Carvalho. Insomma, aggiungono colore, realtà, ricchezza alle loro trame. Io, nel mio piccolo, ho voluto fare altrettanto, ho voluto che Milano fosse protagonista e stuzzicasse la curiosità dei lettori non milanesi, e che i lettori milanesi ritrovassero i loro luoghi, in modo che quando passeranno di fianco alla Conca del Naviglio potranno rivedere la scena del primo capitolo nel suo contesto reale. Perché Milano e non un’altra città? Ovviamente perché si scrive meglio di ciò che si conosce, di ciò che si ama. E poi Milano ha tante perle poco conosciute e a volte sottovalutate.
D: Quali autori ti hanno ispirato? Solitamente i giallisti giocano con le citazioni e i rimandi nelle loro opere…
R: Ci sono riferimenti ricorrenti a diversi autori, ma in particolare due. Uno di questi è inatteso per un thriller e si tratta di Dostoevskii. Uno dei protagonisti, appassionato lettore del mostro sacro russo, si trova in una situazione che gli ricorda quella di Raskolnikov, protagonista di Delitto e Castigo. Cosa c’entra con un thriller? Niente, c’entra invece con quello che dicevo prima, che con i miei personaggi ho voluto affrontare tematiche profonde, scavare nelle coscienze dei protagonisti e in quest’ottica Dostoevskii è un riferimento imprescindibile. Il secondo invece è più “di settore”. Raymond Chandler e il suo Philip Marlowe, che oltre a essere un modello di riferimento per il protagonista investigatore, ha alcune affinità con la personalità del mio personaggio, almeno nella prima parte del romanzo.