Friuli-Venezia Giulia. Osvaldo è un cacciatore, uno di quelli che potremmo definire senza scrupoli, perché uccide la selvaggina non solo per procurarsi cibo ma, forse in maniera preponderante, oltre le proprie esigenze, per una mera gratificazione personale.
A causa di un errore veniale commesso ai danni di due fratelli poco di buono, viene braccato da questi ultimi che prendono l’offesa come un vero e proprio affronto, un’onta da punire mediante una vendetta estremizzata al massimo. Per non rischiare la pelle, a Osvaldo non rimane che intraprendere una frenetica fuga dai due invasati, e si vedrà costretto a trascorrere molte settimane in nascondigli di fortuna, a vivere di quel che trova, nelle impervie e incontaminate selve lontano da casa. Tra una peripezia e l’altra scoprirà che quei territori boscosi, che crede di conoscere alla perfezione e in cui si è sempre ottusamente ritenuto una sorta di entità superiore solo per il fatto di stare dalla parte del manico del fucile, in realtà sono una superficie sotto la quale si cela un mondo sconfinato e pressoché ignoto. E al cospetto di cotanta grandezza l’uomo ne è, o meglio ne dovrebbe essere, solo un abitante alla pari degli altri esseri viventi che la occupano, e non un elemento egoisticamente abusatore che ne altera gli equilibri.
Leggere un romanzo di Mauro Corona, almeno per quanto mi riguarda, è qualcosa che si avvicina molto a un’esperienza sensoriale.
Probabilmente ciò è dovuto al tema trattato e che domina gran parte dei suoi libri: la Natura, depauperata e stravolta dalla presenza insistente e arrogante del genere umano e ciò nonostante fondata su ritmi imprescindibili, su leggi perenni, su una forza, insita fin nei più piccoli dettagli, tanto invisibile quanto potente e inesauribile.
Lo scrittore friulano ha la capacità di far immedesimare il lettore nelle atmosfere delle sue storie in maniera davvero emozionante. Questo grazie a intense e vivide rappresentazioni, quasi sempre collocate nei luoghi dove lui è nato e vissuto e che conosce a menadito. Corona non fa uso di frasi lunghe o di descrizioni ridondanti; i suoi sono per lo più periodi brevi, che vanno dritto al punto, spesso con l’ausilio di metafore e similitudini che cesellano poeticamente la situazione e la immortalano in maniera permanente.
Tra le tante, sono due le componenti che, a mio avviso, ritengo magistralmente evidenziate da Corona. La prima è l’”assordante” silenzio con cui la Natura fa costantemente funzionare l’eterno e fondamentale motore di tutti i propri ingranaggi universali: dall’alternarsi delle stagioni alla crescita delle piante, fino alla sopravvivenza degli animali che avviene con l’essenziale, reciproco sostentamento.
L’altra è la notte, che si potrebbe pensare uguale, nel suo annunciarsi, a qualsiasi altra notte in un qualsiasi altro posto: dapprima il sole che inizia a calare, poi il tramonto, infine le tenebre avvolgenti. Decisamente no. Questa ne è sola una scarna sinterizzazione. Mauro Corona descrive l’imbrunire come un processo elaborato, uno sviluppo che, secondo dopo secondo, nel suo incedere, influenza impercettibilmente l’ambiente e lo colora in un avvicendarsi interminabile di sfumature. E ce ne parla ogni volta in modo differente, non come il resoconto del susseguirsi dei giorni uno identico all’altro, bensì come se ciascuno fosse, e lo è, diverso dal precedente, singolarmente irripetibile e unico in sé, in una catena infinita che è la vita.
E così dovrebbe essere non solo in una zona montuosa ma ovunque e per chiunque.
Uno degli aforismi più famosi di Mauro Corona, che attinge da una delle sue più forti passioni, la scultura del legno, è: “Vivere è come scolpire. Per vedere bisogna togliere.”
Leggere un suo libro è davvero questo: ritrovarsi davanti a un intagliatore che, con precise pressioni sulla sgorbia, inizia a lavorare un blocco grezzo di legno. E l’immagine che affiora, mentre tutto l’inutile viene tolto, è qualcosa di sbalorditivo.
Recensione di Damiano Del Dotto.
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