Il dolore è il titolo di un romanzo della scrittrice francese Marguerite Duras, pubblicato in Francia nel 1985. Il titolo nella lingua originale è “La doleur”: come spesso capita le parole non presentano lo stesso genere in tutte le lingue. Ma sia che le si consideri al maschile piuttosto che al femminile, il loro significato, ciò che esse esprimono e rappresentano, non cambia. Il dolore, la doluer del romanzo è lo stesso: un dolore intenso, che si fa strada nell’anima, che cresce giorno dopo giorno, incessante, inevitabile,è il dolore di un singolo e di un intero continente, dell’intera umanità.
Come afferma la stessa Duras questo romanzo,a sfondo autobiografico, proviene da un diario rimasto nascosto e dimenticato per anni, un diario ambientato durante la seconda guerra mondiale che racconta della vita della scrittrice, la quale collaborava in quegli anni a Libres, un foglio che informava i parenti delle persone deportate in Germania; un diario che l’autrice non ricorda di aver scritto, né quando, né di averlo abbandonato per anni in una casa di campagna. Non ha nessuna immagine di sé nell’atto di scriverlo, non le sembra pensabile di averlo scritto nei giorni a cui si riferisce, nel tempo del dolore. Nella prefazione del romanzo la Duras scrive: “.. “Il dolore è fra le cose più importanti della mia vita.. … Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura..” .Quel dolore quindi viene dal passato non grazie alla memoria ma grazie alla perdita della memoria, una perdita della memoria che si è resa forse indispensabile per poter sopravvivere a quei giorni, agli orrori, al dolore stesso.
Il romanzo è il racconto dell’attesa spasmodica e atroce del ritorno, nel campi di concentramento nazisti dei deportati francesi. Al dolore collettivo per i tanti morti e le attese snervanti di notizie, si mescolano le vicende del dolore personale dell’autrice il cui marito, Robert Antelme, che nel libro è presentato come Robert L., è stato deportato a Dachau. Gli alleati stanno liberando i campi di concentramento. La Duras attende l’apparizione del marito Robert o la più probabile comunicazione della sua morte. Il dolore è immaginare di non sapere mai più nulla. Le informazioni si rincorrono, si intrecciano in un gioco logorante di speranza e delusione. L’ansia di una telefonata, l’incomprensibile calore di un affetto umano, false premonizioni e testimonianze certe trasformano chi aspetta in una corda tesa di nervi e paura, smarrimento e lacrime. Sullo sfondo, la vita di ogni giorno, perché si è costretti a vivere, ad aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno, ad essere capaci di non ridurre tutto il senso di una vita alla mera e spasmodica attesa. Poi, i primi di maggio, una telefonata di Mitterrand dalla Germania annuncia che Robert Antelme è a Dachau in fin di vita per la denutrizione e il tifo e che occorre portarlo via immediatamente.
Dall’inferno non tornerà il Robert conosciuto e amato, ma un uomo distrutto nel fisico e mutilato per sempre nell’anima. “..Si lascia guardare. Una fatica soprannaturale nel suo sorriso, la fatica di essere arrivato a vivere fino a quel momento. E’ un sorriso che improvvisamente riconosco, ma lontano, come lo vedessi in fondo a un tunnel. Un sorriso confuso. Si scusa di essere ridotto così, un rifiuto. Poi il sorriso scompare, torna a essere uno sconosciuto. Ma ora so che quello sconosciuto è lui, Robert L., nella sua interezza..”.
Passeranno diciassette giorni prima che sia dichiarato fuori pericolo. Diciassette giorni senza quasi mangiare, ancora e di nuovo privato del cibo, stavolta non per farlo morire ma per salvarlo,per abituare nuovamente e lentamente il suo corpo ad assimilare cibo. Pesava trentotto chili per un metro e settantotto. “..Non ci siamo mai abituati a vederlo. Impossibile abituarsi. L’incredibile era che vivesse ancora. Quando la gente entrava nella camera e vedeva la forma sotto il lenzuolo non riusciva a sopportarla, volgeva altrove gli occhi. Molti uscivano, non tornavano più. Lui, non si è mai accorto del nostro spavento. Era felice, non aveva più paura. La febbre lo teneva su..”. Poi inizia la guarigione e con essa la fame: “..Lui è scomparso, al suo posto la fame. Un vuoto al suo posto. Butta giù in un buco, empie quello che era svuotato, le viscere rinsecchite. (…) Quando c’è il sole le sue mani sono trasparenti. Ieri raccattava le briciole cadute per terra dai pantaloni con uno sforzo enorme, oggi ne trascura qualcuna. (…) Quando i piatti ritardano piange, e dice che non lo capiamo. Ieri pomeriggio è andato a rubare pane nel frigorifero. Ruba. Gli diciamo di fare attenzione, di non mangiare troppo. Allora piange..”.
Qualche tempo dopo Robert viene informato che sua sorella Marie Louise, anch’essa arrestata dai tedeschi, è morta, nel giorno dell’armistizio, mentre la trasportavano in aereo dal campo di Ravensbruck a Copenhagen. Aveva ventiquattro anni, era diventata cieca, tisica all’ultimo stadio. A lei è dedicata l’opera di Robert Antelme, L’espace humaine, La specie umana. Fino a quel momento quella di Robert era stata un’eloquenza muta, il suo corpo ridotto a “forma” parlava per sé, e raccontava tutto l’orrore vissuto, subito, l’annichilimento fisico , mentale e spirituale, lo stupro della dignità umana. Scrive lo stesso Antelme: “Due anni fa, subito dopo il nostro ritorno, siamo stati tutti, credo, in preda a un vero delirio. Volevamo parlare ed essere finalmente ascoltati. Ci dissero che il nostro aspetto fisico era di per sé abbastanza eloquente”. Poi Robert scrive “La specie umana” definito come un “classico della letteratura de campi di sterminio”, in cui finalmente dà voce a quello strazio, a quel dolore. La Duras scrive di quel libro: “…La Specie Umana. Una volta il libro scritto, stampato, uscito, non ha più parlato dei campi di concentramento tedeschi. Mai queste parole. Mai più. Mai più neanche il titolo del libro. .”.
La seconda parte del romanzo della Duras comprende altri cinque pezzi tutti sullo e per lo più dello stesso periodo, ciascuno accompagnato da una breve “istruzione per l’uso”: Il signor X detto qui Pierre Rabier ; Albert de Capitales; Il miliziano Ter; L’ortica spezzata, Aurélia Paris.
Il dolore è una testimonianza intima, straziante e appassionata sulla tragedia dei deportati e dei campi di concentramento. Dramma dell’attesa, dramma di un amore che sa di non poter resistere alle rivelazioni della sofferenza, dramma anche nella forma della narrazione, “Il dolore” è un percorso di vita tragicamente vissuta, affidato a due vecchi quaderni scritti da Marguerite Duras in una “calligrafia minuta, straordinariamente regolare e calma” , dimenticati, ritrovati per caso e riproposti al pubblico a una distanza di tempo e spazio “di sicurezza”, quasi quarant’anni più tardi. Pagine violente, sanguinanti, di una brevità intensa, nelle quali confluiscono esperienze personali, ricordi, impressioni. Ciò che colpisce è la capacità della Duras di rendere con pochi tratti precisi, come istantanee in bianco e nero persone, luoghi e fatti senza la necessità di molte parole, in uno stile incisivo, dal forte impatto emotivo.
Silvia Mangieri